L’incompiuta

Ventotto anni fa a quest’ora, un po’ prima e anche molto dopo, il mondo – almeno quello con accesso alla tv – era paralizzato da una notizia scioccante e inaspettata, la morte di Diana, Principessa del Galles. Una fine che nella banalità dell’incidente stradale concludeva una vita che dalla normalità degli esordi, benché assai più privilegiati della media, si era poi avvitata in una spirale iperbolica che penso neanche lei volesse.

(Ph: Patrick Rivierie/AFP)

Senza imbastire per l’ennesima volta una discussione sulla vicenda e i suoi protagonisti, facciamo così: ricordiamo la donna ricordandone l’influenza sullo stile, che molti aspetti si fa ancora sentire.

(Ph: Tim Graham/Getty Images)

Lasciatemi aggiungere una sola cosa: con tutto il rispetto per Her Majesty The Queen, penso che gli errori più gravi nel suo lunghissimo regno li abbia fatti con i figli, impedendo le nozze tra i giovani Charles e Camilla, e proteggendo Andrew oltre l’opportuno. Con l’aggravante del legame inestricabile tra The Family e The Firm.

(Ph: Getty Images)

Scelte che hanno pesato molto sulla generazione dei figli, e speriamo che quella dei nipoti riesca a ricucire e andare avanti. Io sono ottimista, as usual.

I post dedicati allo stile di Diana li trovate qui: Style file: Diana Principessa di Galles (prima parte)

Style file: Diana Principessa di Galles (seconda parte)

Style file: Diana Principessa di Galles (terza parte)

Qui il posto dell’uomo che morì con lei: L’altra vittima

Una polemica, un anniversario, un bel gesto e la comica finale

L’argomento clou di questi giorni pr ogni royal watcher è naturalmente la visita di stato di Monsier le President de la République e di Madame Macron nel Regno Unito, ma dato che ne parlano tutti noi lasciamo sedimentare, e ci torneremo nei prossimi giorni.

(Ph: Yui Mok/PA)

Oggi ci concentreremo su qualcosa di inerente ma laterale, e siccome l’estate mi stimola la polemica fatemi dire una cosa. Da due giorni non faccio che leggere frasi tipo: “Kate, prove tecniche da regina” “William e Kate presto sul trono” e addirittura “Carlo il re uscente”. Col tatto del proverbiale elefante nell’altrettanto proverbiale cristalleria si allude evidentemente alla malattia del re che potrebbe causarne la dipartita in tempi brevi. Permettetemi di commentare: 1) queste cose rischiano di portare male non tanto all’oggetto dei commenti, l’incolpevole Charles ma anche, e direi soprattutto, agli autori di tali pensieri, per cui knock on wood (che sarebbe l’equivalente inglese del nostro toccate ferro) e fatela finita. 2) l’elefante nella cristalleria è comunque più elegante.

(Ph: Aaron Chown/Getty Images)

Se i sovrani hanno festeggiato i vent’anni di matrimonio alla serata di gala al Quirinale durante la loro visita di aprile, un’altra royal couple ha celebrato l’anniversario durante lo state banquet di martedì sera: i Duchi di Gloucester. Lui, Richard, è il minore dei due figli che Henry Duca di Gloucester ebbe da Lady Alice Montagu Douglas Scott. Suo padre era fratello di King George VI, dunque lui cugino di primo grado di Queen Elizabeth. Lei, Birgitte van Deurs, è una ragazza danese che va a imparare l’inglese a Cambridge, dove lui studia architettura. Si conoscono così, due ragazzi come tanti. Quando la relazione si fa seria, lei trova lavoro come segretaria all’ambasciata di Danimarca a Londra. Si sposano l’otto luglio 1972 nella chiesetta di St Andrew’s a Barnwell, villaggio del Northamptonshire dove i Gloucester hanno la casa di campagna. È un matrimonio low profile, e così probabilmente la giovane coppia pensa al proprio futuro, una vita normale, col legame con la royal family sullo sfondo.

Ma il destino ha in serbo per loro un’altra vita, che inizia con una tragedia. Cinquantun giorni dopo il matrimonio William, affascinante fratello maggiore dello sposo, muore in un incidente aereo (ne abbiamo parlato qui: A Royal Calendar – 28 agosto 1972). Richard diventa dunque erede del titolo paterno, che assume alla morte di Henry, meno di due anni dopo. Nel tempo i duchi si sono rivelati una presenza fondamentale per Queen Elizabeth, e ora per King Charles, fedeli e affidabili, sempre al servizio della Corona. E Lady Violet confessa un debole per lei e il suo personalissimo senso dello stile.

Dopo aver parlato male della stampa italiana e bene dei Duchi di Gloucester proseguiamo parlando benissimo del sempre rimpianto Prince Philip. Lunedì 7 è morto Lord Tebbit, che fu ministro con Margaret Thatcher, e la stampa ha riportato alcuni episodi della sua vita, tra cui uno riguardante sua moglie. All’inizio degli anni ’80 la lotta indipendentista irlandese era ancora molto attiva, e il 12 ottobre 1984 l’IRA mise una bomba al Grand Hotel di Brighton, dove si teneva il congresso del Partito Conservatore. Ci furono cinque morti e una trentina di feriti, tra cui Lady Tebbit, che rimase paralizzata e trascorse il resto della sua vita sulla sedia a rotelle. Alcuni anni dopo, i Tebbit parteciparono a uno state banquet. Prince Philip, rendendosi conto della difficoltà della signora nell’usare le posate, mise da parte le sue e iniziò a prendere il cibo con le mani, così che lei potesse fare lo stesso senza sentirsi in imbarazzo. Meravigliosa lezione di umanità, di empatia, e anche di bon ton, quell’educazione vissuta e non esibita, che rende tutto piacevole, e a volte prezioso.

(Ph: Getty Images)

Invece ci tocca vivere il tempo in cui il web è inondato dalla foto che mostra Monsieur le President sembra fare l’occhiolino alla charmante Principessa di Galles. Tentativo di seduzione à la française? Bruscolino nell’occhio? Semplice cecagna dopo una giornata impegnativa? Temo che il titolo dato all’ultimo post di Lady Violet sia stato profetico: Macron, che pasticcion!

Once upon a time in Dallas

Il 22 novembre 1963 è una di quelle date incise nella mente di molti, di tutti. Chi c’era se la ricorderà sempre, chi non c’era ancora, o era troppo piccolo, a imparato a conoscere, e a ricordare. È uno di quei giorni che io chiamo “la fine dell’innocenza” la fine di una favola, di un’età dell’oro, una fase che nasce come un sogno e finisce in un incubo.

(Ph: Cinema Publishers Collection/imago images)

All’una del pomeriggio del 22 novembre 1963 il presidente John Fitzgerald Kennedy viene dichiarato deceduto dai sanitari del Parkland Memorial Hospital, dove era giunto in condizioni disperate – forse già morto – dopo l’attentato avvenuto mezz’ora prima.

Jack faceva la storia, Jackie la raccontava. Fu lei, colta e amante della cultura più del marito, a definire Camelot l’era kennediana e quando Jack se ne andò, il mondo si aspettava che Jackie, vedova a 34 anni con due bambini piccoli (più altri due morti alla nascita) diventasse la vestale del mito, un mito che come nella tragedia greca si nutriva della propria distruzione. Non ci riuscì, non come si voleva da lei. Ma quel giorno alla fine ce lo ricordiamo forse più per Jackie che per Jack. Lady Violet di sicuro, forse anche per quell’istintivo pudore che si ha nel guardare qualcuno che sta morendo senza poter fare nulla. Quel giorno per me è Jackie, che arriva nella città texana con la sua grazia leggiadra, e ne riparte sempre graziosa, ma pietrificata. Quel giorno per me è quella mise rosa, la cui storia abbiamo raccontato in questo post: Quel tailleur rosa.

Tre giorni dopo il figlio John compiva tre anni, e l’immagine che racconta quella giornata è un bimbo col cappottino azzurro che fa il saluto alla salma del padre; l’abbiamo ricordato qui: Jackie, la donna che visse tre volte (parte seconda)

Matrimoni

Settembre è il classico mese dei mese dei matrimoni; i miei genitori, almeno due coppie di zii, mio fratello. la mia migliore amica scelsero tutti questo mese in cui la luce è ancora piena, la temperatura consente abiti leggeri e colorati, ma l’aria comincia ad essere più dolce, meno soffocante (speriamo!).

Agosto si è chiuso con un royal wedding piuttosto sui generis di cui arriverà a breve il post, ma oggi è un giorno un po’ così (confesso, non amo settembre e mi intristisce sempre) ed è anche l’anniversario di una tragedia che segnò profondamente il nostro Paese per cui, se volete, ecco il ricordo di un altro matrimonio.

Che non ebbe il tempo di fiorire come forse i protagonisti avrebbero voluto, o sperato, ma come il seme che finisce sotto terra qualche frutto lo ha dato.

Se volete, qui due post in memoria del generale Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela.

La foto del giorno – 3 settembre

Di pari passo con l’amore e la morte

Le foto del giorno – Collezioni bizzarre e dove trovarle

Mentre attendiamo quelle del Gala della Croix Rouge, dal Principato di Monaco arrivano altre immagini, come dire, originali.

(Ph: Eric Mathon/Princier Palace)

In vista delle Olimpiadi di Parigi, che saranno inaugurate nella Ville Lumière tra una settimana esatta, il 26 luglio, ieri i sovrani monegaschi – accompagnati dai nipoti Louis Ducruet e Melanie-Antoinette de Massy – hanno inaugurato al Grimaldi Forum la mostra La flamme olympique au fil du temps, (la fiamma olimpica nel tempo). Scopriamo così che Albert II ha una collezione di 40 fiamme olimpiche, dal 1936 a oggi, che sono esposte su due file, una per i Giochi estivi, l’altra per quelli invernali.

(Ph: Eric Mathon/Princier Palace)

È l’occasione per ricordare la medaglia d’oro olimpica che un secolo fa, sempre a Parigi, vinse nel canottaggio John B. Kelly Sr. – padre di Grace e dunque nonno di Albert – che ne aveva vinte già due, sempre d’oro, nell’edizione precedente che si tenne ad Anversa. Albert è un po’ fissato con lo sport in generale, e con le Olimpiadi in particolare, tanto che per poter partecipare pure lui a un certo punto si inventò la squadra nazionale di bob, sport che richiede piste innevate non abbondantissime nel Principato. E secondo me il fatto di essere un’olimpionica è uno degli aspetti di Charlène ad averlo affascinato maggiormente. Charlène che per l’occasione ha indossato una tuta con pantaloni a zampetta di Elie Saab. Terribile.

(Ph: Eric Mathon/Princier Palace)

John B.Kelly Sr. ha incredibilmente un ruolo anche nell’epos familiare di Lady Violet, il cui nonno materno raggiunse a più riprese a Philadelphia il fratello maggiore, che vi si era trasferito. E finché non si ammalò raccontava degli scontri tra Irlandesi e Italiani, che formalmente essendo entrambi cattolici avrebbero dovuto solidarizzare, mentre quelli si comportavano molto spesso assai male con i nostri, circostanza che mi è stata confermata dal professor Joseph V. Scelsa, presidente dell’Italian American Museum di New York. E insomma varie volte il nonno citò questo Jack Kelly, che menava brutto anche perché era quasi 1,90,cioè 10 cm abbondanti più alto di lui. Ho spesso pensato che, se Camilla conoscendo Charles gli disse che la di lei bisnonna era stata amante del bisnonno di lui, io incontrando Albert potrei dirgli che suo nonno ha riempito di botte il mio!

(Ph: Eric Mathon/Princier Palace)

Però il nonno portava l’orlo dei pantaloni perfetto, in questo nessun irlandese poteva batterlo.

Novant’anni di King Giorgio (parte seconda)

Sabato scorso i sovrani belgi erano a Londra dove, scortati dai Duchi di Gloucester, hanno reso omaggio ai caduti delle due guerre mondiali con una cerimonia al Cenotafio. La Reine Matilde era vestita Armani Privé, una delle maison cui si affida più spesso, e questo ci consente di riprendere la biografia di Giorgio Armani da dove l’avevamo interrotta, sfiorando uno degli aspetti che ci interessa di più, la relazione con le royal ladies.

La prima parte del post (Novant’anni di King Giorgio (parte prima) si chiude con la morte di Sergio Galeotti, nel 1985, che porta con sé un grande dolore e un grande interrogativo: cosa farà ora Armani senza di lui? Senza il suo spirito, ma anche, soprattutto, senza la sua abilità imprenditoriale, contraltare perfetto alla creatività di Giorgio? Arriva un nuovo direttore finanziario, Giuseppe Volontieri, e a ricoprire il ruolo di direttore commerciale viene chiamato Giuseppe Brusone, già marketing manager di Valentino, che nel 1994 diventerà direttore generale.

La sorella di Armani, Rosanna, diventa responsabile della comunicazione mentre va via Barbara Vitti storica PR, che nel 1982 aveva portato Giorgio sulla copertina di Time, innescando una popolarità planetaria. Lasciano anche Doretta Palazzi, fino a quel momento responsabile comunicazione, e il braccio destro Marisa Modiano Bulleghin, mentre arriva da New York Gabriella Forte.

Armani inizia ad accentrare ogni aspetto del suo lavoro tra le sue mani, e si rivela un imprenditore eccellente; una evoluzione che a me ha fatto sempre pensare a un uomo del Rinascimento. Questa è la sua forza, e per certi aspetti anche il suo limite; lavorare con e per lui non è sempre facilissimo, e negli anni ci saranno altri abbandoni, dalla stessa Gabriella Forte a Lee Radziwill, a Brusone. Questa scelta però aiuta Armani a mantenere quel tratto distintivo, quella unità stilistica che lo contraddistinguono ancora oggi, e negli anni si declinano in molti campi diversi: accessori, beauty, casa, fiori, perfino dolci.

A volte eccede, come per una quella collezione praticamente monocolore dei primi anni ’90, che la madre commentò così: “Giorgio, forse tutti questi beige, meglio lasciarli perdere…” Una conversazione che avrebbe potuto avvenire anche tra mia madre e me, naturalmente a parti invertite. Però questa mania di tenere tutto sotto controllo gli consentirà di rimanere fuori da ciò cha a un certo punto rivoluzionerà il mondo della moda: l’acquisizione dei brand principali da parte di Monsieur Arnault (LMVH) e Monsieur Pinault (Kering) che daranno vita a due multinazionali del lusso. Armani testardamente non cede, resta padrone del suo marchio e della sua creatività. Come un uomo del Rinascimento, appunto, con lo stesso ingegno multiforme. Le sue sfilate sono spesso spettacoli innovativi nati dalla sua mente. Anche quando non riescono, come quella dell’Emporio che avrebbe dovuto svolgersi in una tensiostruttura montata a Place Saint Sulpice, he viene bloccata all’ultimo momento dalla Gendarmerie. La sfilata si farà lo stesso, riservata ai dipendenti di Armani, e il ricco rinfresco farà la felicità di tanti clochard. Molti negli anni si chiedono perché Giorgio Armani proponga raramente abiti da sera; la ragione è semplice, non ci sono abbastanza soldi per farli. Ma i soldi arrivano, tanti, sempre di più, e finalmente all’inizio del nuovo millennio il genio di King Giorgio può misurarsi anche col sogno di ogni creatore di moda, l’haute couture: Armani Privé nasce nel 2005.

Armani Privé scatena il desiderio di regine principesse e aristocratiche varie, che già amavano Armani come Caroline de Monaco, abile trend setter, e come Paola, allora Principessa di Liegi, che si fa vestire da lui per le nozze del figlio Philippe con Mathilde (e poi anche per quelle del figlio minore Laurent con Claire). Noi non ne siamo sorpresi, così come le scelte fatte negli anni, anzi nei decenni, ci sembrano oggi perfettamente logiche e sagge; ma all’epoca non erano così scontate.

Torniamo indietro di una quarantina d’anni, quando probabilmente diversi lettori di questo blog non erano neanche nati, o andavano a scuola. Questa bella foto è del 1985; è il momento del trionfo del Made in Italy, e lo stile Armani si fa notare per la linea classica eppure innovativa, la personalità rarefatta, l’elegante sobrietà. Gli Ottanta sono però gli anni dell’estro, del divertimento anche eccessivo, e questa allegria si riflette anche sulla moda. Pensate a Ungaro, a Christian Lacroix, ma soprattutto a Gianni Versace. Piccola nota personale: per il matrimonio di mio fratello, 1987, io dico a priori che non voglio nulla di Armani, che quell’anno aveva fatto morbide gonne midi e camicie quasi monacali. Ero molto giovane e volevo qualcosa di più divertente, più chiassoso. Come finì? Camicia in organza a righe su gonna in seta a pois. Black&white, tutto Armani of course. Però comprai qualcosa da Versace, in saldo.

Versace, che di Armani era l’opposto. I due non si amavano troppo (anzi per niente) e una volta si sfiorò pure l’incidente diplomatico quando durante una settimana della moda milanese entrambi avevano fissato la propria sfilata lo stesso giorno alla stessa ora. Sembra che Gianni una volta disse a Giorgio “Io vesto le troie, tu donne di chiesa”, ma mi sa che Versace era un po’ fissato perché Ornella Vanoni ha raccontato che una volta che gli contestava alcune mise, il divino Gianni se ne uscì con: “Senti io vesto le zoccole. Se vuoi vestirti da monaca vai da Romeo Gigli.” Proprio Romeo Gigli, e con lui Armani e Prada, incarnano lo stile sobrio degli anni ’90, aggravato in Italia dalla crisi generata da Mani Pulite.

Versace invece resta fedele al suo stile, e lega indissolubilmente il suo nome alla royal lady più famosa di tutte, Diana, che aiuta a definire uno stile personale sempre più lontano dalla Royal Family, sempre più vicino al glamour internazionale. Uniti in vita e incredibilmente anche in morte, lo stilista e la principessa scompaiono entrambi nell’estate 1997, a 47 giorni di distanza.

(Ph: courtesy Giorgio Armani)

Si chiude un secolo, si chiude un millennio, e in quell’anno di passaggio Armani perde l’amatissima madre; Giorgio ha più di sessant’anni, ed è un grande dolore. Perché diciamolo, è brutto perdere i genitori quando si è giovani ma forse è pure peggio perderli da grandi. A supportarlo come sempre c’è il suo braccio destro Leo Dell’Orco, e all’orizzonte un grande progetto: l’alta moda di Armani Privé, quella che lo porterà davvero sul trono.

(Ph: Bertrand Rindoff Petroff/Getty Images)

Sul trono e accanto a molti troni, perché sono tante le royal ladies che si lasciano sedurre dal Privé. Ma questo merita un post a parte, anzi un Royal chic shock e boh. Stay tuned!

Molte delle notizie di questi post sono tratte dall’interessante biografia scritta da Renata Molho, Essere Armani. Non è troppo recente ma preziosa.

Novant’anni di King Giorgio (parte prima)

Se Valentino è the Emperor, l’imperatore, Giorgio è the King, il re; per noi repubblicani affascinati dai reali non potrebbe esserci forma di regalità più splendente, più soddisfacente e più indiscutibile a livello planetario.

Nato l’undici luglio 1934 a Piacenza da Ugo e Maria, Giorgio ha un fratello, Sergio, maggiore di cinque anni e una sorella, Rosanna, più giovane di cinque. Un’infanzia di guerra, divisa tra povertà e dolore, come tante in quegli anni.

Il padre, impiegato, nel 1949 decide di trasferirsi a Milano sperando di poter offrire alla famiglia qualcosa di più. Giorgio si diploma al liceo scientifico Leonardo da Vinci e si iscrive a medicina, ma tre anni dopo parte per il servizio militare. Quando torna, la sua vita cambia binario: viene assunto alla Rinascente, simbolo della modernità e dell’Italia che appunto rinasce dopo la guerra. Si occupa di vari aspetti tra cui la pianificazione delle vetrine, da cui nasce la leggenda che abbia fatto il vetrinista. Serio, rigoroso, perfezionista, studia materiali e tessuti, la forme, le linee e finisce con attirare l’attenzione di un giovanotto che ha già un nome nella moda maschile: Nino Cerruti, figlio di un produttore di tessuti di Biella, che gli affida la sua linea Hitman. L’uno è “il signor Nino” e forse da lui l’altro eredita il vezzo di farsi chiamare sempre “il signor Armani”.

Siamo in pieni anni ’60, il decennio in cui cambia tutto, e non solo nella moda, basti pensare che nel nostro Paese inizia con La dolce vita e finisce con la strage di Piazza Fontana. A Londra ci sono i Beatles con le loro giacche guru e Mary Quant con la minigonna; Kings Road e Carnaby Street; nel 1967 Flavio Lucchini si inventa L’uomo Vogue. Il decennio si conclude con la realizzazione del sogno più grande di tutti: il 21 luglio 1969 l’uomo sbarca sulla luna. In questo tourbillon di cambiamenti, innovazioni, trasformazioni, Giorgio propone una rivoluzione di stile che sembra piccola ma diventerà grandissima; un immagine sobria, educata, istruita, direi quasi milanese, che parte dal concetto di giacca destrutturata e non si ferma più.

Arriva il secondo incontro della vita: Sergio Galeotti, un giovane architetto più giovane di dieci anni. Toscano di Pietrasanta, sanguigno quanto l’altro è algido; uno rumorosamente allegro l’altro sobriamente riservato. Come spesso accade tra persone così diverse si riconoscono e si innamorano alla follia. Sergio spinge Giorgio a mettersi in proprio, rinunciando alla tranquillità anche economica offerta da Cerruti. Nel 1975 nasce la Giorgio Armani SpA (e nel 1979 Lady Violet riceve dalla madre il primo capo, una giacca/cardigan di lana blu che dev’essere ancora in giro). Gli anni ’70 però sono caratterizzati anche dall’incubo del terrorismo, per cui la moda di Armani, elegante ma senza eccessi, impiega poco a soppiantare l’allegro stile hippy – che pure aveva una sua funzione, essendo percepito come povero – a questo si aggiunge la crisi energetica (vi ricordate l’austerity?) che si riflette sia sulla possibilità di spendere sia direttamente sulla disponibilità dei tessuti; la collaborazione tra Armani e i Rivetti, proprietari del GFT(Gruppo Finanziario Tessile) imprimerà una spinta decisiva al cambiamento. È questo il momento in cui nasce il Made in Italy, concetto prima sconosciuto, insieme a termini come “stilista” o “showroom”. Molto si deve al genio di Galeotti, che si occupa della parte gestionale guidato da intuizioni valide ancora oggi. La società nasce con l’investimento di due milioni e mezzo di lire, frutto anche della vendita del maggiolino di Giorgio, in un piccolo spazio a Corso Venezia; verranno poi la sede di via Borgonuovo, col meraviglioso teatro che fa spesso da palcoscenico alle sfilate, la sede di via Durini; e le residenze private: i dammusi a Pantelleria e la villa a Broni, tra Pavia e Piacenza, con animali esotici nell’ampio parco e un Tiepolo in salotto.

Nonostante la teenager Lady Violet avesse trovato il suo stilista del cuore, grazie anche – soprattutto – alla generosità materna, vi sorprenderò dicendovi di aver influito solo in minima parte nel successo planetario di King Giorgio, che alla fine degli anni ’70 inizia ad avere una clientela di tutto rispetto.

(Ph: Ron Galella/Getty Images)

Il 3 aprile 1978 Diane Keaton, candidata all’Oscar come migliore attrice per Annie Hall, si presenta al Dorothy Chandler Pavilion con una rigorosa giacca grigia Armani, che fa dal contraltare al gonnellone a righe; un mix tra maschile e femminile che incarna, probabilmente suo malgrado e con una certa disordinata naïveté, l’dea dello stile Armani. Vince lei, e in qualche modo vince pure lui.

Hollywood, enorme cassa di risonanza, se ne accorge, e nel 1980 un film lancia due stelle nel firmamento. Il film è American Gigolo: rende Richard Gere una star mondiale e apre a Giorgio Armani, che lo dota di un guardaroba completo, le porte delle sterminate praterie americane. Sergio Galeotti ha l’idea di assoldare come specialissima PR Lee Radziwill, sorella di Jackie Kennedy, il cui stile lo ha incantato; anche lei aiuterà Armani a sfondare negli USA. Nel corso degli anni saranno sempre di più le attrici e gli attori a farsi vestire da Armani, creatore di un lusso talmente elegante da far sembrare lo stile hollywoodiano ancora più pacchiano. Nasce l’Emporio, che nel 1987 verrà raccontato da uno spot promozionale diretto addirittura da Martin Scorsese; allo stesso anno risale la definitiva consacrazione del legame tra Armani e il cinema, con la creazione degli abiti indossati dagli Intoccabili, nel film di Brian De Palma. Sono gli anni ’80, quelli dell’edonismo reganiano e della Milano da bere, quelli in cui tutto è possibile. E tutto sembra davvero possibile, ma purtroppo c’è il rovescio del medaglia, e si chiama sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS. Viene identificata nel 1981 e si diffonde in modo tragicamente rapido. Sergio Galeotti si ammala, e muore il 14 agosto 1985; ha compiuto quarant’anni solo 19 giorni prima. Giorgio si trova squarciato dal dolore e dalla necessità di decidere il meglio per le sue aziende.

Cambia ancora binario; come ve lo racconterò nella seconda parte, che trovate qui: Novant’anni di King Giorgio (parte seconda)

A Royal Calendar – 1 giugno 1954

Dove sta andando la giovane sorridente Queen Elizabeth, scortata dall’affascinantissimo marito Philip? Se non lo sapete ve lo dico io! I due sono gli ospiti d’onore al matrimonio di una coppia che in qualche modo ha contribuito a scrivere una pagina di storia.

Se non fossero mancati entrambi da tempo – e se non avessero divorziato dopo quindici anni – oggi gli sposi di quel giorno lontano festeggerebbero settant’anni di matrimonio. Quel 1 giugno del 1954 Westminster Abbey ospita qualcosa di molto vicino a un royal wedding. Lo sposo è Edward John Spencer, detto Johnnie, Visconte Althorp; la sposa Frances Ruth Roche, figlia minore del barone Fermoy. Sette anni e un mese dopo dalle nozze sarebbe nata Diana, destinata a diventare la Principessa di Galles, e tutte le altre cose che sapete.

(Ph: Getty Images)

Lui trent’anni, lei appena 18; la più giovane a sposarsi a Westminster Abbey dal 1893. Lui è il figlio minore, e unico maschio, del settimo conte Spencer e di sua moglie Cynthia, figlia del Duca di Abercorn. Le origini della famiglia risalgono al Cinquecento, la notevole ricchezza alle pecore e al commercio della lana. Nasce a Londra il 24 gennaio 1924 e viene tenuto a battesimo dal futuro Re Edward VIII. Come molti anni dopo faranno i nipoti William e Harry, frequenta Eton e il Royal Military College di Sandhurst. Fa in tempo pure a partecipare con onore alla seconda guerra mondiale; tornata la pace inizia la sua carriera: aiutante di campo del governatore dell’Australia del Sud, scudiero di re George VI e poi di Queen Elizabeth. Assume diversi incarichi pubblici finché il 9 giugno 1975, alla morte del padre, diventa l’ottavo conte Spencer e va a occupare un seggio alla Camera dei Lord, che resterà suo fino alla morte.

(Ph: Getty Images)

La sposa ha dodici anni meno dello sposo (la stessa differenza di età tra Charles e Diana), è nata il 20 gennaio 1936 a Park House, all’interno della tenuta di Sandringham. Suo padre Maurice è uno degli amici più intimi di re George V, che gli ha affittato la casa dove la coppia va a vivere, ed è qui che sette anni dopo nasce Diana. Le madri di entrambi gli sposi sono al servizio di Elizabeth, prima Queen Consort e poi Queen Mother, che a sua volta partecipa al matrimonio con la figlia Margaret. Insomma, un affare di famiglia (reale).

(Ph: Getty Images)

A match made in heaven? Non proprio, ma quel giorno sembra una favola. La sposa indossa un abito riccamente ricamato – forse troppo, per una ragazza così giovane – ma senza strascico, in testa un semplice velo di seta fermato dall’elegante tiara della sua famiglia. Dopo la cerimonia ricevimento per i numerosissimi e prestigiosissimi ospiti in un luogo che più royal non si può, St.James Palace.

Nove mesi e mezzo dopo le nozze nasce Sarah, due anni dopo Jane, e il 12 gennaio 1960 arriva l’agognato maschio, l’erede del titolo e della tenuta di famiglia, Althorp. Purtroppo il bimbo muore dopo poche ore. Diana vede la luce il 1 luglio 1961; non è il maschio che gli Spencer desiderano ma la terza femmina, e la sua nascita genera qualche malumore. Il maschio arriverà tre anni dopo: Charles, che viene battezzato a Westminster Abbey, con la Regina come madrina. Il matrimonio non è felice, Johnnie è anche violento con la moglie: uno dei ricordi della Diana bambina è il padre che schiaffeggia la madre, con la piccola che si nasconde dietro una porta per non sentirne il pianto.

È il 1967 quando Frances si innamora di Peter Shand Kidd, neanche una goccia di sangue blu ma un notevole patrimonio grazie alle carte da parati. Gli Spencer si separano, lei va a vivere a Londra con Diana e Charles, mentre le figlie maggiori restano col padre, che poi riesce a trattenere con sé anche i due più piccoli. Arriva il divorzio, chiacchieratissimo; la madre di Frances, convinta sostenitrice dell’indissolubilità del matrimonio, testimonia a favore del genero. Forse pensava che la figlia dovesse continuare a prendere sberle e tacere. Frances sposa Peter ma perde la custodia dei figli, e si trasferisce col nuovo marito nella campagna inglese; nel 1990 la coppia divorzia.

(Ph: BBC)

Qualche anno dopo si risposa anche John, con la pittoresca Raine, che nonostante l’improbabile cotonatura è una sposatrice seriale di aristocratici. Avrà preso spunto dai romanzi rosa scritti dalla madre, Barbara Cartland, una vera pink lady, altro che Barbie! Il resto, dicevamo, è storia. Nel 1981 Diana sposa Charles, e il complesso retaggio familiare probabilmente fa la sua parte nel disastro che diventerà quel matrimonio. John muore a 68 anni, nel 1992. Dodici anni dopo muore anche Frances, che si è ritirata a vivere in un villaggio scozzese.

Di quel giorno di giugno di giugno restano la delicata bellezza della sposa, la baldanza dello sposo, le pellicce delle ospiti (a giugno!) e un bagaglio di promesse non mantenute. E quindici bei nipoti, che alla fine sono la vera ricchezza.

Addio Ira!

C’era una volta una principessa, era l’incipit che incantava, o affascinava, o almeno interessava noi bambine degli anni 60. A partire dalla piccola Lady Violet, che una certa propensione per storie e principesse l’ha avuta sempre.

C’era una volta la Dolce Vita, un’epoca in cui il bel mondo gravitava intorno a Roma, a un tempo protagonista e palcoscenico di eleganze e follie, miti e scandali, aristocratici e divi.

C’era una volta la grande industria, che creava grande ricchezza per pochi, un discreto benessere per alcuni, e l’idea che il futuro sorridesse a tutti.

C’era una volta il cinema italiano – c’è ancora naturalmente, ma mi riferisco a quello di qualche decennio fa – che oscillava tra il cialtronesco e il sublime (per i cinefili tra voi, lo stesso titolo di questo post evoca quello di un famoso film degli anni ’40, Addio Kira! con Alida Valli).

Mischiate tutto in uno shaker, agitate, e otterrete lei. Virginia Carolina Theresa Pancrazia Galdina zu Fürstenberg, detta Ira in memoria di una zia morta giovanissima.

(Ph: Irving Penn for Vogue 1967)

Nelle sue vene il sangue dei principi del Sacro Romano Impero si mischia a quello della dinastia industriale più importante d’Italia, gli Agnelli. Il padre è Tassilo, ramo cadetto e piuttosto squattrinato di una famiglia che affonda le proprie origini nella Foresta Nera; il giovanotto, che è andato a cercar fortuna in America ma al crollo di Wall Street è tornato indietro, nel 1937 incontra la diciassettenne Clara, prima dei sette figli di Edoardo Agnelli. Che è morto giovane, per cui la cura dei sette ragazzi viene divisa, non senza pesanti divergenze (eufemismo) tra la madre e il nonno, l’assai benestante ma borghese senatore Giovanni, fondatore della FIAT. I suoi due figli hanno fatto matrimoni aristocratici: Aniceta ha sposato il barone Carlo Nasi, Edoardo Virginia Bourbon del Monte, antica dinastia tosco umbra.

Virginia, vedova a 36 anni, tiene molto che i suoi figli facciano buoni (leggi blasonati) matrimoni: Tassilo e Clara si sposano a Torino nel 1938. Il 17 aprile 1940 a Roma nasce Ira, poi arrivano Egon – uomo adorabile e stilista di talento – e Sebastian. Divorzieranno, e Clara si rimariterà con Giovanni Nuvoletti, delizioso dandy mantovano che parte borghese ma in corsa diventa nobile grazie all’adozione del conte Perdomini. Quando i genitori si separano la principessina, per sua ammissione viziatissima, viene mandata a studiare in Inghilterra in un collegio di suore assai severe per tenerla lontana dallo scandalo. Ha solo quattordici anni ma già altezza adeguata quando sfila per Emilio Pucci, marchese stilista e amico di famiglia, e forse pensa a un futuro nella moda. Ma presto suonano le campane a nozze: nel settembre 1955 sposa a Venezia Alfonso de Hohenlohe-Langenburg, altro principe del Sacro Romano Impero con ascendenze spagnole per parte di madre, la famosa Piedita, che era stata tenuta a battesimo da Re Alfonso XIII. Questo Alfonso è nato a Madrid ed è l’uomo che ha lanciato Marbella e la Costa del Sol nell’olimpo del turismo più elegante (e danaroso).

Nozze civili il 17 e religiose il 21, nella chiesetta di San Sebastiano; per la sposa appena quindicenne ci vuole la dispensa papale (non vi perdete il reportage della Settimana Incom: https://www.youtube.com/watch?v=hcaWPYLQj9o&t=71s). Ira indossa un romantico abito di Jacques Griffe, sarto francese che aveva appreso l’haute couture da Madame Vionnet; l’acconciatura è di Alexandre de Paris, che intento a dare gli ultimi ritocchi alla sposa quando è già in gondola inciampa e cade nel canale, rischiando l’annegamento visto che non sa nuotare. I festeggiamenti, con base a Palazzo Giustinian Brandolini sul Canal Grande – dove vive la zia Cristiana, coniugata per l’appunto Brandolini d’Adda – durano giorni e giorni. Poi si parte in auto, una decappottabile color crema: Parigi, Le Havre, l’imbarco su un transatlantico fino a New York, accolti come divi del cinema da divi del cinema. Il resto on the road, dormendo in motel molto poco principeschi, fino alla California. Da quel viaggio le resta l’odio per le macchine (non ha mai preso la patente) e l’amore per Los Angeles e per il comfort. La coppia va a vivere a Città del Messico, ancora piena dell’arte di Frida Kahlo e Diego Rivera. Nascono due figli ma il matrimonio dura poco; forse troppo giovane lei, sicuramente troppo facile ad ottime ed abbondanti distrazioni lui. A un certo punto si distrae pure lei ma il marito, come spesso accade, non può accettare di essere ripagato con la stessa moneta; le toglie i figli e vuole il divorzio, che però l’ordinamento italiano non contempla. Il matrimonio viene sciolto in Messico, e Ira è pronta per nuove nozze con l’uomo di cui si è innamorata: Baby Pignatari, fascinoso Italo brasiliano appartenente a quel club di playboy sudamericani che tra gli anni Cinquanta e Sessanta fecero strage di cuori (e di patrimoni), capitanati dal mitico Porfirio Rubirosa.

Ira e Baby si sposano a Reno, in Nevada, nel 1961; lei ha 21 anni, lui 44. Tre anni dopo la coppia ripassa per il Nevada: è divorzio per crudeltà mentale. A 24 anni Ira ha due figli che vede poco e due ex mariti, ed è pronta per un altro grande amore, quello per lo spettacolo. Recita in alcuni film anche notevoli e finisce per presentare il Sanremo del ventennale, nel 1970. La sua prova d’attrice più famosa è nel ruolo della dietista dottoressa Olivieri in Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, dove recita anche il marito della madre: Giovanni Nuvoletti è il sussiegoso e venalissimo professor Azzarini.

Non diventa una star – anche perché temo che non venisse presa troppo sul serio – ma è sempre la regina del bel mondo internazionale: invitatissima, invidiatissima, fotografatissima. Non ottiene però, almeno in Italia, quella che è la vera consacrazione della popolarità: cioè bambine che in suo onore vengano chiamate col suo nome. Ira infatti in italiano è uno dei sette peccati capitali, il che renderebbe le pupe difficili da battezzare (e infatti qualche prelato si rifiuta)

Alla fine capisce che la sua strada è essere stessa e fare quello in cui è più brava: i rapporti umani. Inizia promuovendo la linea di cosmetici di Germaine Monteil, poi il neonato profumo di Valentino (quello che portava Lady Violet da ragazza, mi sembra di sentirlo ancora).

(Ph: Alain Dejean/Getty Images)

Si trasferisce a Ginevra e inizia l’attività di PR ad alto livello, mettendo in contatto – oggi si direbbe in rete – le sue conoscenze; in fondo i famosi salotti non sono nati per questo? Una donna d’affari che soddisfa la sua parte creativa con la creazione di abiti, accessori e complementi d’arredo: nel 1992 lancia il suo marchio, Ira Fürstenberg Collection.

Qualche anno prima, nel 1985, sembra profilarsi all’orizzonte un terzo blasonatissimo matrimonio, quando il suo nome viene accostato con insistenza a quello di Rainier III, Principe di Monaco e vedovo fino ad allora inconsolabile di Grace, che è pure un suo mezzo cugino. Entrambi smentiscono ripetutamente, e infatti non accade nulla.

(Ph: Dominique Jacovides/BESTIMAGE)

A questo punto lasciatemi dire una cosa; Ira è stata forse la prima persona di cui ho memoria ad essere stata ripetutamente oggetto dello stigma grassofobico; ricordo in quel periodo quanti sottolineavano cone la sua figura non fosse sottile quanto quella della defunta principessa, offendendo in un colpo entrambe, quasi che Grace fosse stata scelta solo per la magrezza. Benché non sia mai stata grassa, Ira ha lottato buona parte della sua vita contro una certa tendenza alla pinguedine data forse dalla struttura teutonica, sottoponendosi a diete draconiane nel tentativo di assomigliare al cigno Grace, o alla zia Marella, altro cigno di quel jet set in cui evidentemente i candidi pennuti abbondavano. Il che me l’ha sempre fatta sentire vicina. Quando l’ho conosciuta, qualche decennio fa, sono rimasta colpita dalla bellezza – era veramente splendida, molto più di quanto non apparisse sui giornali – e dalla simpatia, che in certi ambienti non è una caratteristica troppo frequente, soprattutto se coniugata all’autoironia.

(Ph: Bertrand Rindoff Petroff/Getty images)

All’eterna lotta tra grasso e magro è legata anche la grande tragedia della sua vita; nel 2006 affronta l’inaffrontabile, la morte di un figlio. Il primogenito Christoph, sempre chiamato Kiko, si trova in Thailandia dove ha subito un trattamento dimagrante cui qualche anno prima si era sottoposta anche la madre. Forse qualcosa va storto e deve prolungare la sua presenza nel Paese, ma il visto è scaduto e lui prova a contraffarlo. Scoperto viene arrestato, imprigionato in un carcere locale in condizioni limite e muore per le complicazioni sopraggiunte. Un dolore mai esibito, che la accompagnerà fino alla fine.

Giovedì mattina il funerale a Santa Maria in Montesanto, la Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo. Col figlio minore Hubertus e sua moglie Simona c’erano molti cugini della grande famiglia Agnelli; c’era Jaki Elkann con la moglie Lavinia Borromeo, mentre Lapo ha inviato un corona di fiori bianchi. C’erano gli amici di sempre, quelli che sono rimasti; non c’era nessuno del cinema, che l’ha sempre considerata un corpo estraneo. Un addio sentito e, passatemi il termine, elegante, come sarebbe piaciuto a lei.

Rileggendo il pezzo mi sono resa conto di aver usato molti superlativi, che non è mai indizio di buona scrittura, ma per lei ci vogliono tutti. Mi torna in mente il commento attribuito alla principessa Margaret quando si ventilava il matrimonio con Rainier de Monaco: Ira è troppo grande per un Paese così piccolo. E mi sembra l’epitaffio perfetto.

P.S. Nel 2019 Nicholas Foulkes ha pubblicato un libro su di lei: Ira: The Life and Times of a Princess; l’ultima fotografia ne è la copertina.

Protagonisti e comprimari

Dopo le notizie, invero piuttosto scioccanti, arrivate da Londra, si riflette sul fatto che lo snellimento della Royal Family, con la conseguente riduzione dei membri attivi, al momento ponga alcuni problemi dato che col Re prossimamente assente per il trattamento alla prostata – anche se intende tornare rapidamente al lavoro – la principessa di Galles in ospedale e poi in una lunga convalescenza col marito al suo fianco, restano in pista la Regina Consorte, l’instancabile Princess Royal, i Duchi di Edimburgo e tutt’al più quelli di Gloucester; comunque tutti over70 tranne Edward e Sophie.

(Ph: Dennis Stenild, Kongehuset)

C’è da dire che in Danimarca stanno pure peggio; se la Regina Emerita non avrà un’agenda pubblica tutto il lavoro graverà sulle spalle dei nuovi sovrani, con l’eventuale sporadico supporto del figlio Christian – che però deve dedicarsi alla sua formazione – e forse talvolta della zia Benedikte (ma ci credo poco).

(Ph: Dennis Stenild, Kongehuset)

Vedremo, intanto la Casa reale ha pubblicato nuove fotografie di Frederik e Mary, con l’erede e gli altri tre figli, nella sala del trono di Christiansborg. Cogliamo l’occasione per una piccola analisi dei protagonisti (e dei comprimari) dell’abdicazione/proclamazione di Copenaghen e poi via, verso nuove meravigliose avventure!

Sorelle e Fratello

(Ph:  (Thomas Traasdahl/Ritzau Scanpix)

Lunedì mattina, durante la visita del nuovo re al Parlamento, della delegazione reale faceva parte la principessa Benedikte, sorella minore di Margrethe, che a dire il vero partecipa spesso a questo genere di eventi; si pensava dunque di vederla anche il giorno del passaggio delle consegne ma benché direi certo che fosse a Copenaghen non si è vista; pensavo fosse la signora che accompagnava in auto la ex sovrana subito dopo l’abdicazione, ma chiaramente non era lei. Sicuramente assente invece l’altra sorella, Anne-Marie, che qualche giorno prima era ad Atene per il primo anniversario della morte del marito. Presenza silenziosa.

Dall’Australia a dare man forte a Mary è arrivata la sorella maggiore Jane Stephens con il marito Craig. Non avendo ruolo alcuno ovviamente nessuno si aspettava di vederla e infatti la sua presenza è passata praticamente inosservata; in effetti nella marea di immagini che ha invaso il web me ne sono capitate anche un paio di lei sorridente a godersi lo spettacolo dei fuochi artificiali che hanno illuminato la notte di Copenaghen, ma credetemi: riconoscerla era praticamente impossibile. L’importante è che ci fosse, abbiamo imparato quanto sia importante per un o una commoner che diventa royal avere una famiglia solida alle spalle, e quanto questo finisca col rappresentare un valore aggiunto. D’altronde dopo la crisi generata dalle fotografie di Frederik con la Genoveva dove se n’è andata Mary? In Australia, a casa. La famiglia.

(Ph: Martin Sylvest Andersen/Getty Images)

Discorso a parte per il principe Joachim, fratello del re. Da lui ci aspettavamo di tutto, ma in fondo è un soldato e ha fatto il suo dovere. L’ho visto arrivare a Christiansborg, da solo, in alta uniforme, e mi ha fatto una vaga tristezza. Quello che fu the spare era in una delle auto reali, che sono contrassegnate da targhe speciali. La sua era la numero 10 (per capirci, i figli dei sovrani erano nella 1) per cui ho pensato che se ci fosse stato un pranzo a lui sarebbe toccato il tavolo dei bambini, e magari il menu cotoletta e patatine. Vederlo il giorno dopo durante la visita al parlamento mi ha un po’ rincuorata, speriamo bene. Poteva andare peggio.

I figli

(Ph: AFP)

Diventato a diciotto anni e tre mesi il nuovo Principe Ereditario, l’imponente Christian se l’è cavata tutto sommato con onore; un po’ incerto sul da farsi durante la seduta col Consiglio di Stato in cui la nonna ha firmato l’abdicazione, ma non è stato il solo. Mi viene da pensare che in assenza di una liturgia precisa finisce sempre così, che non si sa bene cosa fare (a me è capitato partecipando a qualche funerale laico). Molti di voi hanno trovato il tutto un po’ freddo, perfino raffazzonato, altri hanno ammirato la sobrietà scandinava; Lady Violet confessa di aver guardato il giovanottone immaginandosi la reazione di una certa bionda principessina borbonica e, soprattutto, della di lei madre. Ne vedremo delle belle.

(Ph: Dennis Stenild, Kongehuset)

I fratelli minori di Christian hanno avuto, com’era giusto, il loro momento di gloria al balcone con i genitori. La tredicenne Josephine, che mi sembra la più umorale dei quattro, evidentemente ha risentito dello stress: graziosissima in un cappottino Prada che fu della madre è apparsa immusonita al limite del maleducato sul balcone di Christiansborg; quando la famiglia ha replicato a Amalienborg è uscita abbracciata al padre. Più serafico il gemello Vincent, che da bravo figlio minore mi sembra uno già in grado di cavarsela da sé (e bellino com’è sarà uno spasso seguirlo). Ho adorato Isabella, deliziosa in un cappottino rosso Carolina Herrera, che è apparsa sinceramente felice. Carucci.

La Regina

(Ph: Dennis Stenild, Kongehuset)

È stato senza dubbio il trionfo di Mary, e il riconoscimento per tutto l’impegno profuso in questi vent’anni. Il suo unico vero limite può essere la ricerca della perfezione, ma spesso per questo l’età aiuta, per non parlare di quattro figli adolescenti. Ci chiedevamo come si sarebbe vestita, e va detto che ha fatto tutto per bene. Non è una sorpresa che abbia scelto uno stilista danese, Søren Le Schmidt, per l’abito candido che è stato realizzato da un’altra fedelissima, Birgit Hallstein, titolare di una nota sartoria che all’epoca cucì anche il suo abito da sposa (disegnato da Ulle Frank). Un modello midi, caratterizzato da un drappeggio che partiva dalla cintura, saliva sul lato sinistro del corpino, girava intorno al collo e finiva svolazzante dietro la spalla sinistra; una sorta di peplo moderno, che avesse tutta la regalità del mondo classico. Immagino che l’obiettivo fosse una mise con qualche caratteristica che lo rendesse abbastanza sontuoso per l’occasione, non proprio l’abito di un’incoronazione ma quello che ci si avvicinasse di più.

(Ph: Dennis Stenild, Kongehuset)

Mi è piaciuto? Non particolarmente, ma penso che in fondo abbia le caratteristiche giuste per passare, nel suo piccolo, alla storia. Perfetti i gioielli; oltre al ritratto di Margrethe dell’ordine reale familiare, alcuni pezzi della celebre parure di rubini: orecchini, spilla appuntata sulla cintura e due fermagli tra i capelli. La parure è stata indossata spessissimo da Ingrid, nonna di Frederik e ultima Regina Consorte prima di Mary, e in aggiunta presenta i colori della Danimarca, bianco e rosso. Lo stesso schema è stato adottato nella scelta degli abiti delle figlie: rosso per isabella, che con la madre compone la bandiera nazionale, con l’aggiunta del blu di Josephine, che cita il terzo colore presente nella bandiera delle isole Fær Øer, che fanno parte del regno di Danimarca (e pure la bandiera australiana, in onore della sovrana). Praticamente perfetta sotto ogni aspetto.

Il Re

Dalle stalle alle stelle in un paio di mesi, Frederik è passato da marito forse fedifrago a padre della patria. E tanto per rispondere a chi lo ha sempre considerato un po’ farfallone, più attratto da divertimenti e sport che dalle cose serie, ha immediatamente scodellato un libro – diciamolo, se non scrivi almeno un libro ormai non sei nessuno – che nel Paese sta andando a ruba. Il volumetto di un centinaio di pagine si intitola Kongeord (La parola del re) e naturalmente non lo ha scritto proprio lui in persona, ma il giornalista Jens Andersen, autore già nel 2017 di una biografia dell’allora principe ereditario. Come il titolo lascia intendere, nel libro il neosovrano parla di sé, della famiglia, di ciò che desidera per la Danimarca. Confesso che sono molto curiosa di vedere l’evoluzione di questo regno; al momento impossibile non notare come la presunta amante di Frederik si chiami Casanova, e lo scrittore Andersen; che fantasia! Io speriamo che me la cavo.

Margrethe II

Si discuterà per anni se (o meglio quando) avesse deciso di abdicare, se il declassamento dei figli di Joachim rientrasse nel progetto, se lo scandaletto di Frederik abbia solo accelerato la decisione, se non volesse rischiare di perdere Mary, considerata fondamentale dopo vent’anni di impegno indefesso. Lei ha dato le carte e condotto il gioco come ha voluto, compiendo un gesto inconsueto che le assegna un posto particolare nella storia del suo Paese. Ha esercitato le prerogative reali e anche quella di capofamiglia dando forse la sveglia a quei due bambacioni (parere personale) dei suoi pargoli. Con la sua abdicazione, che segue a breve distanza di tempo la morte di Queen Elizabeth, non c’è più trono su cui sieda una donna; ma si preparano tempi in cui molte donne regneranno, su Norvegia Svezia Paesi Bassi Belgio Spagna; donne cui non sarà più chiesto di comportarsi come se fossero uomini. Vi ricordate quella scena di Shakespeare in love in cui un’altra Queen Elizabeth, la prima, dice: “I know something of a woman in a man’s profession”, so qualcosa di una donna che fa un lavoro da uomo. Ecco Margrethe chiude un’epoca, e dimostrando il suo potere, il suo senso dello stato, ne prepara un’altra. Una nota di costume: mi chiedevo se la regina avrebbe indossato la spilla a forma di margherita che l’ha accompagnata in tante tappe importanti. Non lo ha fatto, e giustamente, visto che la spilla è legata a sua madre e alla famiglia materna. Invece ha indossato una piccola spilla a forma di ferro di cavallo, con 11 piccoli rubini e due diamanti (di nuovo rosso e bianco, i colori della Danimarca).

(Ph: Aage Sørensen/Scanpix Denmark)

La ricevette in regalo dal padre il 5 giugno 1953, quando un referendum popolare approvò il cambio nelle regole di successione trasformandola nell’erede apparente al trono, e la indossava quel giorno di 52 anni fa quando ad essere proclamata sul balcone di Christiansborg fu lei. Il cerchio si chiude.

I Danesi

Simpatici, entusiasti, felici come delle pasque hanno sfidato il gelo e affollato le vie di Copenaghen, avvolti nei loro piumini, in molti – e non solo bambini – con le corone in testa. Hanno bevuto champagne, ma pure birra, magari la Carlsberg nelle bottiglie create apposta per l’occasione. Hanno agitato senza stancarsi le bandierine, urlato hurrà per il nuovo re e fatto ciao alle telecamere come se avessero vinto i mondiali. Stile hygge.

E nel caso ve lo foste perso, ecco il breve video della proclamazione, nel nuovo stile comunicativo della Casa reale https://www.facebook.com/reel/1165871384787714